Maternità e guerra. Lontana.
Come l'orrore che vedo ogni giorno sta mettendo in discussione me e il mio modo di essere madre.
La prima volta che mi sono “occupata” di genocidio avevo 13 anni, si trattava della guerra civile in Ruanda, durante la quale gli appartenenti all’etnia Hutu uccisero circa un milione di Tutsi in pochi mesi.
Avevo solo 13 anni, e a scuola mi fu assegnato un tema su questo argomento, tema che ricordo vagamente e che scrissi senza avere praticamente nozione, senza informazioni sul contesto ne sulle dinamiche politiche, ovviamente. Scrissi di pancia. Scrissi del dolore, dell’indignazione e della colpa che doveva cogliere e punire non solo gli assassini, ma anche tutti quelli che stavano a guardare. Quel tema fu letto in aula magna, con mia grande sorpresa ed infinita vergogna.
Probabilmente, ripensandoci adesso, quello fu il momento in cui iniziai a fare scelte sbagliate.
Lo scorso 7 ottobre, come il 99% della popolazione mondiale che ha ascoltato o letto le notizie del giorno, mi sono indignata, arrabbiata, ed impaurita per gli atti inumani compiuti dai terroristi di Hamas in Israele. Mi sono affrettata a comunicare al mondo social che io stavo dalla parte dei buoni, urlando a gran voce che non si può vivere vittime del terrorismo e che anzi va combattuto in tutti i modi ed estirpato.
Ovvio. Certo.
D’altronde, durante tutta la mia vita adulta, il nemico numero uno è stato sempre e quasi esclusivamente il terrorista islamico, il pazzo fondamentalista senza sentimenti che disprezza l’occidente in tutte le sue espressioni, che non ha rispetto per la sua stessa gente, che tratta le donne come bestie e che ambisce a sterminare gli infedeli attraverso un suicidio-omicidio al grido di Allahu Akbar. Quantomeno semplicistico, direi.
Poi la vendetta di Israele è arrivata rapidissima, ed ho visto altre immagini di morte e terrore. Tante altre. Troppe.
E allora ho deciso di informarmi, ho deciso di approfondire, di studiare, di capire. Questa non è la sede per raccontare la storia, non è la sede per sventolare una bandiera. Questa è la sede per dire che le lacrime di una madre hanno tutte lo stesso sapore salato, per dire che il pianto di un bambino che cerca la sua mamma, ha lo stesso lamento straziante.
Questa è la sede di cui io ho bisogno e che mi sono creata, per urlare oggi il dolore e la colpa. Per dire che mi sento inutile mentre quello scempio si compie e che sento di aver completamente perso di vista quella che era la direzione che avrei dovuto seguire nella mia vita, invece ho camminato alla cieca, seppellendo gli ideali che sentivo forti in quel mal di pancia mentre scrivevo del Ruanda, sotto una enorme quantità di sciocchezze preconfezionate per me da qualcun altro. Ecco, oltre al senso di colpa per essere seduta al calduccio sulla mia comoda poltrona a scrivere sorseggiando il mio caffè mentre magari a Gaza sta crollando un palazzo, è fortissimo quello per non aver mai fatto, nella vita, qualcosa di utile al prossimo, perché si, avrei dovuto, e forse avrei anche potuto farlo bene.
Il nostro cervello è antico, progettato milioni di anni fa per farci sopravvivere, ed usa la paura come strumento principale, l’uomo cavernicolo doveva aver paura di molte cose per non mettersi in pericolo più del necessario e restare vivo, ed è stato provato da diversi studi che non distingue il reale dall’immaginato. Non è vero solo quello che stai vivendo sulla tua pelle, ma è vero anche quello che vivi nella tua testa.
Sono sicura di non essere l’unica, ma in questo momento io sento addosso il dolore di tutti quei bambini tremanti e coperti di polvere, di tutte quelle madri disperate nel loro ultimo tremendo abbraccio, vedo cosi tanto dolore, che il mio cervello lo interiorizza e lo vive come se fosse mio. Sento il peso della sofferenza che mi bombarda ogni giorno, il peso del terrore provato dai i bambini che sono o che erano a Gaza, e anche di tutte le guerre di cui non mi sono occupata, di tutti i morti che ho ignorato.
Esiste tutto quello che vedi, ma quello che non vedi, non esiste.
Ecco perché adesso voglio scrivere. Perché è troppo tardi per continuare a dirmi che è troppo tardi, perché cercare di svegliare dal torpore le mamme che al parchetto mi dicono che non ce la fanno a vedere quelle immagini strazianti e che vogliono solo vivere nella loro bolla di normalità e sentirsi grate che quell’orrore stia succedendo lontano da loro, non è abbastanza. Perché non riesco a vivere una vita “normale” fingendo che questo non stia succedendo a bambini che potrebbero essere i miei figli, perché non riesco a non pensare che quella madre devastata potrei essere io, non riesco a scollarmi di dosso la rabbia, la delusione, la paura che quelle donne stanno provando adesso, a non chiedermi se sarei riuscita a rimanere salda sulle gambe, e nella testa. Se sarei riuscita a non impazzire io, sotto quelle bombe, sentendo continuamente il dolore che esplode in urla e pianti, respirando quella polvere e quella morte.
Vorrei mettere un freno a questo flusso incontrollato di parole, ma non posso ignorare il fatto forse più importante, e cioè che la guerra e la devastazione che si stanno consumando sull’altra sponda del mare, stanno cambiando il mio modo di essere madre.
I miei bambini sono piccoli. Troppo piccoli per capire la guerra, troppo piccoli per vederne le immagini tremende, per concepire che c’e un mondo crudele al di fuori della loro vita ovattata e sicura. Io non sono mai stata una mamma troppo paziente ne troppo permissiva, anzi, sono una mamma normale, che alza la voce, che fallisce spesso e che sta crescendo bambini che fanno capricci e (o perché, ma questo è un altro tema) ottengono quasi tutto quello che vogliono, eppure io adesso ho più difficolta a gestire le loro bizze, fatico a trattenermi dal rimproverarli quando si lagnano per un ovetto kinder o litigano per scegliere cosa guardare su Netflix. Faccio una fatica enorme a non urlargli contro la loro mancanza di rispetto per chi adesso magari piange perché non ha più la casa, o una gamba, o la mamma.
E questo, lo so, non ha senso.
Sto cambiando come madre, sta cambiando il modo in cui guardo i miei figli, in cui li accarezzo mentre si addormentano. L’amore che provo si è ispessito, si è addensato, è una patina che li ricopre e che li protegge anche da me stessa, nei momenti in cui sprofondo nella tristezza e le mie guance si rigano perché, nei loro, vedo migliaia di altri volti impolverati, ormai sbiaditi, già dimenticati. Le mamme di Gaza stanno dando una grande lezione a tutte noi, loro sono disperate, ma resistono, le vediamo tenere in braccio bambini mutilati, piccoli corpi smagriti e ingrigiti dalla polvere, le vediamo accampate sui pavimenti degli ospedali, le vediamo sopportare, piangere, urlare, abbracciare. Nelle foto vediamo scatti di istanti cristallizzati nella storia, ma non sentiamo l’odore di polvere da sparo, l’odore di sporco, di escrementi, di immondizia. Non respiriamo la polvere, non sentiamo le sirene, le urla della gente, il rumore dei razzi, il fracasso delle esplosioni, delle case che crollano. Non sentiamo i bambini che piangono, non sentiamo i morsi della fame, l’arsura della sete, o il dolore delle ferite. Noi vediamo le foto, e tanto ci basta a stare male. Riuscirei, io, a resistere? A restare in piedi per proteggere i miei figli? Riuscirei, io, a sopravvivere loro? Probabilmente annegherei nelle lacrime, mi rannicchierei sotto un calcinaccio aspettando che un razzo mi colpisse, o vorrei essere io il razzo che colpisce anche uno solo di quelli che hanno distrutto la mia famiglia, il mio popolo, la mia vita.
Ormai sono settimane che assistiamo a questo orrore, e non sembra che sia stato fatto nessun passo avanti, le bombe continuano a cadere, i bambini continuano a morire, e non posso non chiedermi se abbia più fortuna chi se ne va, o chi invece resta li, tra le macerie. Forse il senso logico di aver scritto questa lettera è trascurabile, ma avevo bisogno di scriverla. Avevo bisogno di condividere queste sensazioni e questo grande peso che sento sul petto. Se ti riconosci anche solo in una delle frasi che ho scritto o dei sentimenti che ho raccontato, non sei sola, anzi. Se vuoi scrivimi o commenta qui sotto, possiamo fingere di essere al parchetto con i bambini e di aver trovato un’altra mamma che sente quel dolore e che non lo vuole attutire, che vuole pensare, con cui sia possibile parlare.
Grazie per aver letto fino a qui.
A presto,
Valeria
Anche l' amore verso mia figlia si è ispessito. Anche io sento il peso sul petto, l' ho sentito talmente tanto negli anni passati che ho dovuto strutturarmi per difendermi da esso. Questo, ha contribuito a farmi girare la testa dove non potessi assistere allo scempio e so che non è giusto ma non ho potuto fare altrimenti. Mi piacerebbe fare di più, pur non essendo sul posto, ma credo che l' unica cosa che mi riesca bene è educare all' amore e alla gentilezza con la speranza, prima o poi, di una catarsi sociale e collettiva che porti a non ammazzarsi per un territorio ma a condividerlo in serenità attraverso uno scambio culturale che arricchisca tutti perché, come sappiamo da sempre, nessuna guerra è giusta.